[English text below]
Un passo indietro.
Il 17 di marzo 2010 era diventata legge dello Stato il provvedimento sul Made in Italy, la cosiddetta legge Reguzzoni-Versace-Calearo.
Sostanzialmente si prevedeva un sistema di etichettatura obbligatorio dei prodotti destinati alla vendita nei settori tessile, pelletteria e calzaturiero, per segnalare – oltre al rispetto delle leggi in materia di lavoro e sicurezza - il luogo di origine delle fasi di lavorazione.
Senza entrare nel dettaglio: se queste fasi di lavorazione fossero avvenute prevalentemente nel territorio italiano (2 su 4 per il tessile, 2 su 5 per calzaturiero e pelletteria), il prodotto avrebbe potuto fregiarsi della denominazione “Made in Italy”. In caso contrario, il prodotto distribuito nel territorio italiano avrebbe dovuto indicare il differente luogo di provenienza.
La domanda è questa: se era stata accolta con toni tanto trionfalistici la Reguzzoni-Versace-Calearo che ci avrebbe fatto individuare inequivocabilmente il prodotto italiano, che cosa acquistiamo oggi con la dicitura “Made in Italy” e perché nemmeno questa legge entra in vigore?
La legge non entra in vigore, perché dalla Commissione europea è arrivato uno stop, in quanto una normativa italiana specifica in materia di marcatura di origine entrerebbe in conflitto con la normativa europea. In più potrebbe avere conseguenze limitanti sul libero movimento delle merci tra Stati membri, costituendo un ostacolo al libero commercio promosso dalla Commissione stessa.
E quindi il Governo italiano ha accettato una sospensione e non ha emesso i decreti attuativi della legge.
In Europa, a parte settori specifici regolati da direttive particolari (es. in campo alimentare), non esiste obbligo di etichettatura delle merci, né se queste sono europee, né se arrivano da Paesi extra EU.
E’ ancora il principio del libero scambio che si porta appresso un bell’aiuto alle multinazionali che hanno delocalizzato extra EU la produzione: meglio non far sapere da dove arriva il prodotto se l’origine non è premiante. In altre parole: l’indicazione di origine è volontaria. Quindi la prima indicazione che ne deriva è la seguente: se sul prodotto non è chiaramente indicata la provenienza, esistono elevate probabilità che l’origine non sia la preferita dai consumatori.
Se non c’è il “Made in Italy”, il prodotto probabilmente con l’Italia ha poco a che vedere anche - o forse soprattutto - se il nome del produttore è italiano.
Se il prodotto è completamente fatto in Italia, una denominazione gli spetta di diritto ed è "100% made in Italy", "100% Italia", "Tutto Italiano", che la legge italiana ha introdotto attraverso l’articolo 16 del decreto legge n. 135/2009 dello scorso anno.
La denominazione è poco utilizzata, ma esiste e - su base volontaria – si può effettuare la certificazione con un ente terzo, ad esempio l’Istituto per la certificazione del Made in Italy.
Quando invece è usata la denominazione “Made in Italy”, il prodotto potrebbe essere fatto davvero in Italia. Ma esiste anche il rischio elevato che di realizzato davvero in Italia ci sia poco.
Infatti l’unico riferimento costruito ad hoc per le merci che devono passare le dogane è appunto la normativa doganale europea (Regolamento CE 2913/92), che dice testualmente:
"una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più Paesi è originaria del Paese in cui è avvenuta l'ultima trasformazione o lavorazione sostanziale”.
Dove per trasformazione o lavorazione sostanziale si intende o un cambiamento di classificazione tariffaria ai fini fiscali o la nascita di una merce con composizione e proprietà specifiche del tutto nuove.
Chiarissimo, no?
La norma dettaglia gli incomprensibili criteri che determinano l’origine prevalente, anche se non offre esempi o indicazioni chiare e complete di quelle che possono essere considerate “lavorazioni sufficienti” ai fini del conferimento dell’origine al prodotto.
Però fornisce alcune indicazioni – rassicuranti - su ciò che non è sufficiente per l’etichettatura “Made in Italy”: non è “trasformazione sostanziale” ad esempio fare l’orlo a un paio di pantaloni (!), mettere l’etichetta su prodotti finiti (!!), né mettere in una scatola gli stessi prodotti finiti (!!!).
E questo senza neppure pensare alle ultime fasi di “trasformazione sostanziale”, vedi confezionamento di tessuti già pronti e tagliati di provenienza estera, oppure realizzati in qualche sottoscala abusivo da clandestini o italianissimi lavoratori in nero, etichettati a pieno titolo come “Made in Italy” da marchi celebrati della moda.
Una nuova normativa europea sull’etichettatura è in lavorazione. Da cinque anni. Gestazione lunga e nessuna previsione per la data del parto.
In realtà è urgente per mille ragioni. Una è quella della correttezza nei confronti dei consumatori in buona fede, quelli che acquistano “Made in Italy” convinti di effettuare una scelta di qualità e magari anche per sostegno dell’economia nazionale.
Pare che si tratti di due italiani su tre, a dar retta ai risultati di un recentissimo sondaggio di Mediawatch, commissionato in occasione del Micam dal calzaturificio Moratti. Un discreto potenziale di mercato che i delocalizzatori sostenitori della globalizzazione difficilmente vorrebbero perdere. Naturalmente il principio della correttezza e della qualità è valido anche per i consumatori stranieri.
E quindi: vale qualcosa il “Made in Italy” oppure lo vogliamo fare all’italiana?
One step back.
Last March the Italian Parliament approved a set of rules about “Made in Italy”, the so-called Reguzzoni-Versace-Calearo law.
Substantially this law provided a compulsory system of labelling the products for sale in the Textile, Leather and Footwear field, in order to signal - in addition to compliance with the work and safety laws – the place of origin of the processing of goods
Without going into details, according to this law if the stages of processing were mainly made in the Italian territory (2 out of 4 for the Textile goods, 2 out of 5 for Footwear and Leather goods), the product could have been defined “made in Italy”. At the opposite, the different origin should have been declared.
The questions are: if the Reguzzoni-Versace-Calearo was considered a success and a way to recognize without doubts an Italian product, what are we buying now when we buy a “Made in Italy” product and why even that law couldn’t come into force?
The law didn’t come into force because was stopped by the European Commission, as an Italian regulation about origin marking would conflict with the European regulation. And furthermore, it could limit the free movement of goods amongst State members, against the principle promoted by the Commission of the free market.
So the Italian Government accepted a suspension and didn’t issue the implementing decrees.
With some exception in specific field regulated by their own directive (i.e. for foods), generally in Europe doesn’t exist any obligation to label the goods, neither if they are European nor if they come from extra European countries.
Once again the principle of free trade that helps mainly those corporations, which have relocated their production outside the EU. It’s better to hide where a product comes from if the origin is not rewarding. In other words: the indication of origin is voluntary. So, as first, we can say that if on the product there isn’t any visible origin, there is a high probability that the origin is not best liked by consumers.
If “Made in Italy” is not written probably the product has little to do with Italy, even if – or maybe, mainly if – the producer name is Italian.
If the product is completely made in Italy, it can deserve a denomination like "100% made in Italy", "100% Italia", "Tutto Italiano", defined by the article 16 of last year Decree-Law nr. 135/2009. The denominations are not commonly used, but they exist and – on a voluntary basis – a certification can be made by an independent certification body, such as, for example the Istituto per la certificazione del Made in Italy
When a product has the simple denomination “Made in Italy”, the product could be really Italian. But there is also a risk that the Italian part of the product is a very little one.
In fact there is just one normative reference for the goods that have to pass customs. It’s the Community Customs Code (Regulation EEC No 2913/92) which says: “Goods whose production involved more than one country shall be deemed to originate in the country where they underwent their last, substantial, economically justified processing or working”.
“Last processing or working” means either something that makes possible a change of goods classification for tax purposes or the creation of a product with composition and properties completely new. Perfectly clear, isn’t it?
The regulation details the incomprehensible list of processes that are to be considered to be sufficient for the definition of the origin, even if it doesn’t give examples or definitions clear and complete of the “sufficient processing or work”. But it gives some – reassuring – specifications of what it’s not sufficient to put, for example, the “made in Italy” label: it’s not sufficient hemming the pants (!), affixing or printing marks, labels, logos on finished products (!!) or placing them in boxes (!!!)
And we don’t even have to think about some kind of “last processing or working” like sewing in Italy ready-cut fabrics produced abroad or clothes or shoes made in some abusive laboratory by illegal workers, Italian or immigrants. This last products are properly labelled as "Made in Italy", sometimes also by famous fashion brands
The European Council is working on a new regulations for labelling. It has been working on it for five years. Long pregnancy without any idea about the date of birth.
Actually the law is an urgent need for many reasons, first of all the correctness to the consumers. In Italy a lot of people buy “made in Italy” products to make a quality choice and possibly also to support the national economy. Two Italians out of three think so, according to a Mediawatch recent poll result, commissioned by a shoe factory during the Micam Fair. A fairly good potential market that supporters of globalization would hardly miss.
Of course the principle of fairness and quality is also valid for foreign consumers.
So, is this thing called “Made in Italy” worth anything? If so, Italians should do it better.
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